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Ascom News 66 - Tettoia sul terrazzo, ci vuole il permesso di costruire?

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Abuso edilizio: necessaria l’autorizzazione del Comune per realizzare una tettoria in legno e tegole a copertura sul terrazzo.

Compie reato di abuso edilizio il proprietario di un appartamento che realizza, sul proprio terrazzo, una tettoia in legno e tegole senza prima chiedere il permesso di costruire al Comune. Pertanto, ben può scattare l’ordine di demolizione dell’opera realizzata senza la licenza amministrativa. È quanto chiarito dal Consiglio di Stato in una recente sentenza [1].

Tettoia: ci vuole il permesso del Comune?

La tettoia ha costituito da sempre un terreno di scontro tra proprietari di immobili e pubblica amministrazione. Questo perché la legge non è chiara nel definire quando ci vuole il permesso di costruire. Le sentenze dei giudici sembrano distinguere tra due tipi di ipotesi: quando la tettoia ha una dimensione minima e serve più per estetica o per coprire quel tanto che basta per riparare il proprietario di casa nel momento in cui inserisce le chiavi nella serratura di casa, questa non necessita del permesso di costruire. Essa, in pratica, costituisce una pertinenza urbanistica solo se si tratta di opera di modesta entità e accessoria rispetto all’immobile.

Diversa la soluzione quando, invece, la dimensione ha maggiore impatto e la tettoia finisce per creare un’area vivibile. E questo a prescindere dalla sua destinazione (se rivolta a coprire, ad esempio, qualche elettrodomestico o, invece, a creare uno spazio ove poter collocare dei divanetti).
Dunque, c’è bisogno del permesso di costruire per opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotano per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non sono coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica. Non si può, insomma, parlare di pertinenza quando viene realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, oppure sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma. Dunque, se manca la licenza edilizia per la costruzione della tettoia, il proprietario commette abuso edilizio ed è tenuto ad abbattere il manufatto.

Con la sentenza in commento è stato ritenuto legittimo l’ordine di demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi nei confronti di una tettoia in legno e tegole, posta a protezione di un terrazzo (per le dimensioni vedi in nota [2]). Ciò in quanto se viene ad essere modificata la sagoma dell’edificio i lavori devono essere autorizzati dal Comune. In tali casi, quindi, il proprietario è tenuto a chiedere il permesso di costruire; diversamente risponde del reato di abuso edilizio. Per legge, infatti, occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un «manufatto edilizio», salva una diversa normativa regionale o comunale [3].

note
[1] Cons. St. sent. n. 694/17 del 16.02.2017.
[2] La tettoia in legno e tegole era posta a protezione di un terrazzo, di m. 11,00 per 4,00, sul lato est, di altezza variabile da m. 2,50 a m. 3,00, e di un’ulteriore tettoia, collocata sul fronte nord, di m. 5,70 per m. 4,00, anch’essa di altezza variabile da m. 2,40 a m. 3,00.
[3] Cons. St. sent. n. 3952/2014.


Amministratori di società: meno contributi?

Gli amministratori di società dovranno iscriversi alla Gestione artigiani e commercianti dell’Inps e non più alla gestione separata. È questa una delle conseguenze pratiche più interessanti della sentenza della Corte di cassazione a sezioni unite del 20 gennaio 2017 che ha ribaltato il precedente orientamento, consolidato da più di vent’anni, sulla qualificazione giuridica dell’attività di amministratore o di consigliere d’amministrazione. La Suprema corte infatti, tenendo conto della evoluzione della disciplina societaria degli ultimi anni, ha riqualificato il rapporto che lega società e amministratore non più come rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato ma come rapporto societario. Si tratta infatti di un rapporto che serve ad assicurare l’agire della società e non è assimilabile, secondo la Cassazione «a un contratto d’opera né tanto meno a un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato».
 
Numerose le conseguenze pratiche: la competenza del tribunale delle imprese al posto del tribunale del lavoro per le controversie che possono insorgere tra le parti; la pignorabilità dei compensi anche oltre i limiti previsti per il lavoro dipendente; infine, ed è forse la questione di maggior impatto, il diverso inquadramento previdenziale, con l’obbligo di versamento dei contributi alla gestione artigiani e commercianti al posto della gestione separata. La differenza è sostanziale e, nella maggior parte dei casi, favorevole all’amministratore. L’aliquota previdenziale scende infatti dal 32 al 23,64%, anche se in quest’ultimo caso, per redditi inferiori ai 15 mila euro l’anno, è previsto il versamento di un mimale contributivo di 3.670 euro. Le nuove regole, che derivano dall’applicazione dei principi fissati dalla Cassazione, ma sulle quali l’Inps non si è ancora pronunciata, dovrebbero interessare gli amministratori e i consiglieri delle società, cioè tutti coloro che hanno la rappresentanza esterna dell’ente, salvo che non siano già iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria (per esempio il professionista già iscritto alla sua cassa).

Altra conseguenza è che non dovrebbe più aver ragion d’essere la doppia contribuzione chiesta in alcuni casi dall’Inps. Un esempio: una società produce e vende computer, il socio amministratore paga un contributo previdenziale alla gestione commercianti come socio e un contributo alla gestione separata come amministratore; applicando i nuovi principi verserà solo alla gestione commercianti.
 
Altra differenza è legata al fatto che nella gestione separata chi non versa contributi non matura il diritto alla pensione, mentre nella gestione artigiani e commercianti il diritto alla pensione matura, in alcuni casi, anche in assenza dei versamenti contributi, purché si versi il minimale per maturare il diritto all’anno di anzianità contributiva.

Tutto sommato quindi le conseguenze del mutamento di orientamento giurisprudenziale sembrano in gran parte positive, almeno dal punto di vista previdenziale. Ma c’è un piccolo problema: l’Inps non ha finora preso posizione. Siamo quindi ancora al livello di interpretazione degli effetti impliciti di una sentenza (che aveva per oggetto, è bene ricordare, solo la pignorabilità dei compensi dell’amministratore). Questo però non esclude che il neo amministratore, che deve decidere ora a quale gestione Inps versare i propri contributi, possa optare per la gestione artigiani e commercianti. E nemmeno che chi è già iscritto alla gestione separata possa, in attesa di un pronunciamento ufficiale dell’Istituto di previdenza, chiedere di migrarvi se lo ritiene più conveniente.